Sentiamoci tutti bene No, non “Possiamo”.
Sentiamoci tutti bene
No, non “Possiamo”.
Let's All Feel Good
No, we Kant.
https://aurelien2022.substack.com/p/lets-all-feel-good
Aurelien
Aug 13, 2025
Quando ero
giovane, portavo sempre con me una chitarra. Da solo o con altri, cantavo per
guadagnarmi da vivere, e a volte anche qualcosa in più, nelle sale parrocchiali
e nei centri sociali, nelle scuole e nelle università, nei folk club e nei
locali semiprofessionali.
A quei tempi
– all'incirca dalla metà degli anni '60 alla metà degli anni '70 – c'era un
corpus di canzoni acustiche che quasi tutti conoscevano più o meno. Se sapevi
strimpellare tre accordi (ok, quattro al massimo) e riuscivi a tenere il tempo,
probabilmente potevi cantarne la maggior parte, e il pubblico si univa al coro.
Anche se a quei tempi ero già un purista, più interessato alla musica modale
della tradizione inglese, erano canzoni che in qualche modo avevo assimilato e
che probabilmente avrei potuto cantare se me lo avessero chiesto. Se avete mai
avuto un LP in vinile di Joan Baez o Peter, Paul and Mary, o ne avete visto uno
da allora, sapete di cosa sto parlando. E naturalmente c'era anche molto dei
primi Dylan e dei Dylan surrogati mescolati al resto.
Gran parte di
questa musica non era particolarmente sofisticata dal punto di vista musicale e
dei testi, ma questo era parte del suo fascino, poiché si trattava per lo più
di musica di protesta di vario genere, legata alle cause politiche popolari del
momento e pensata per essere cantata con entusiasmo da grandi gruppi, nella
speranza di cambiare il mondo. (Tom Lehrer, che in modo memorabile ha smontato l'intero
movimento in The Folk Song Army, ha osservato che "il bello delle
canzoni di protesta è che ti fanno sentire così bene"). Ma va bene,
la gente vuole sempre sentirsi bene, e quella era un'epoca in cui sembrava
quasi un diritto umano.
La maggior
parte di queste canzoni parlavano in qualche modo di conflitti e guerre, e i
testi dicevano in generale che la guerra, la violenza, la repressione, l'odio e
la discriminazione erano cose negative, mentre la pace, la tolleranza e la
giustizia erano positive. Difficile non essere d'accordo, immagino, soprattutto
quando hai diciotto o diciannove anni. Ma soprattutto, e questo è importante
per questo saggio, incoraggiavano la convinzione che cambiamenti positivi nel
mondo potessero essere ottenuti con la forza morale e i movimenti di massa
della gente comune. Quindi, secondo le parole di Lehrer, cantando Where have
all the flowers gone? ci si poteva sentire bene, ma si poteva anche sentire
che, in un certo senso, si stava contribuendo personalmente a portare la pace
nel mondo. E questo non era del tutto ingiusto: il movimento per i diritti
civili negli Stati Uniti, che ha ispirato molte di queste canzoni, era stato in
gran parte un'azione politica di massa pacifica, e le canzoni sui sindacati e
sui diritti dei lavoratori riflettevano autentiche lotte popolari. (Anche la
musica rock ha fatto la sua parte: la recente morte di Ozzy Osbourne mi ricorda
i miei amici che sbattevano la testa contro il muro mentre ascoltavano War
Pigs a tutto volume).
Ma il
messaggio più ampio della cultura popolare dell'epoca, di cui qui sto
discutendo solo una manifestazione, era idealista: che il mondo poteva essere
cambiato solo con la forza morale e che, una volta vinta la battaglia delle
idee, la guerra, i conflitti e la povertà sarebbero necessariamente scomparsi.
Così, ad esempio, il guru New Age Werner Erhard fondò nel 1977 il Progetto
Fame, con l'obiettivo di abolire la fame nel mondo in vent'anni. Ottenne il
sostegno di molte celebrità, tra cui il cantante John Denver, per "un'idea
il cui tempo era giunto" e un programma che si concentrava sulla
sensibilizzazione e sul cambiamento delle mentalità, piuttosto che
sull'effettivo nutrimento delle persone.
Sembrava
quasi che la guerra e i conflitti potessero essere ridicolizzati e derisi fino
a scomparire, e in certi ambienti l'interesse per la carriera militare era
considerato una sorta di malattia mentale. Così, il Monty Python's Flying
Circus prendeva in giro l'esercito senza pietà. La popolare serie
televisiva della BBC Dr Who di quei tempi presentava una forza militare
delle Nazioni Unite incaricata di proteggere il mondo dagli alieni, comandata
da un brigadiere tipicamente stupido, i cui uomini dovevano sempre essere
salvati dalle abilità superiori del Dottore. Era l'epoca di Oh What a Lovely War! di Joan
Littlewood (e Richard Attenborough), di How
I Won the War di Richard Lester con John Lennon e, naturalmente, di M*A*S*H
di Altman e di molti altri film. Per molti giovani, indossare uniformi militari
comprate a Carnaby Street a Londra era un gesto di protesta contro qualcosa. A
un livello intellettuale un po' diverso, era l'epoca in cui la storiografia
revisionista sulla Seconda Guerra Mondiale cominciava a prendere piede,
portando infine alle affermazioni oggi di moda sull'equivalenza morale tra gli
Alleati occidentali e la Germania nazista.
O forse la
guerra era semplicemente qualcosa che sarebbe scomparsa con l'evoluzione
dell'umanità. Arthur Koestler, in uno dei suoi ultimi libri, ha
cercato di dare una copertura scientifica all'idea che le guerre fossero il
risultato dell'aggressività individuale degli esseri umani e ha proposto di
aggiungere farmaci psichiatrici calmanti all'acqua potabile delle città. A un
livello più popolare, il film del 1967 Quatermass e il
quarto elemento ( basato
su una serie televisiva della BBC, postulava che le guerre e l'aggressività
fossero causate da marziani invisibili che avevano colonizzato il pianeta in un
momento imprecisato del passato. Alla fine del film, con i marziani sconfitti,
sembrava possibile una nuova era di pace mondiale. L'idea cospiratoria alla
base del film era l'ultima incarnazione del meme dei manipolatori oscuri del
mondo (Templari, Massoni, Ebrei, Banchieri, Comunisti) e naturalmente è viva e
vegeta oggi nelle infinite accuse contro gruppi oscuri dietro le guerre e le
rivoluzioni contemporanee. Masters
of War di Dylan ha dato nuova vita al tropo "i trafficanti d'armi
causano le guerre", che vedo avere ancora dei sostenitori. Ma il punto
chiave era che qualsiasi teoria monocausale di questo tipo rendeva
facili da comprendere le cause della guerra e dei conflitti e, di conseguenza,
semplice la soluzione. E, soprattutto, rendeva molto facile assumere pose di
purezza morale e superiorità, senza bisogno di sapere effettivamente nulla di
nulla.
Era l'estate
indiana del dopoguerra, quando il periodo 1939-45 era ormai diventato storia e
si diffondeva una cauta convinzione che, come diceva la generazione dei miei
genitori, "almeno non dovrete combattere in una guerra come abbiamo fatto
noi". È sempre pericoloso idealizzare il passato, ma credo sia
indiscutibile che in gran parte del mondo occidentale la gente si sentisse davvero
più sicura allora di quanto non si senta oggi. Quando ero giovane, per esempio,
si poteva entrare liberamente negli edifici pubblici, assistere ai dibattiti in
Parlamento mettendosi in fila e farsi fotografare davanti al numero 10 di
Downing Street accanto al poliziotto che da tempo sorvegliava la porta. C'erano
guerre, ma erano lontane e, come nella Guerra dei Sei Giorni del 1967,
sembravano avventure romantiche più che eventi seri. Gli esperti assicuravano a
chi era interessato che, una volta che gli ultimi Stati coloniali avessero
ottenuto l'indipendenza, le guerre avrebbero perso senso perché non ci sarebbe
stato più nulla per cui combattere. Non ci rendevamo conto che l'autunno era
ormai alle porte.
Ora, per
certi versi questa compiacenza può sembrare strana. Dopo tutto, il mondo era
diviso in blocchi antagonisti, armati fino ai denti con armi nucleari. In
teoria, avremmo potuto svegliarci tutti radioattivi il mattino successivo, e ci
sono stati momenti in cui sembrava che potesse davvero accadere. Ma era anche
un'epoca di distensione. L'invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di
Varsavia nel 1968 non diede inizio a una guerra. Furono firmati i trattati SALT
1 e ABM, gli Stati Uniti riconobbero finalmente Pechino come capitale della
Cina e, alla fine del periodo, furono firmati anche gli Atti finali di
Helsinki. Sembrava davvero che le grandi potenze stessero finalmente prendendo
il controllo del corso della storia mondiale.
Naturalmente,
nello stesso periodo era in corso una guerra su vasta scala in Vietnam, ma in
un certo senso questa era stata assimilata nello stesso quadro generale. C'era
molta opposizione a quella guerra, ma almeno in Europa era di natura
performativa. Si trattava di canzoni, marce, manifestazioni, petizioni, mozioni
delle associazioni studentesche e editoriali rabbiosi su giornali a tiratura
limitata. L'Unione Internazionale degli Studenti, con sede a Praga, fornì
generosamente a chiunque ne avesse bisogno un numero illimitato di manifesti
che dichiaravano solidarietà alla lotta antimperialista del popolo vietnamita.
Ma questo
comportamento era in linea con il pensiero generale dell'epoca. In quella che
era evidentemente un'interpretazione edulcorata e banalizzata della teoria
liberale delle relazioni internazionali, la guerra e il conflitto erano
considerati fondamentalmente degli errori, che potevano essere corretti se i
leader nazionali si fossero comportati in modo sensato e avessero ascoltato gli
insegnamenti morali dei giovani con la chitarra. Secondo le parole di una canzone particolarmente
semplicistica dell'epoca, le nazioni potevano semplicemente «accordarsi per
porre fine alla guerra». Avrebbero potuto firmare trattati di pace e portare la
pace universale il giorno dopo, se solo avessero messo ordine nelle loro cose.
Ho un vago ricordo di aver visto un fumetto di Superman dell'epoca in cui
l'eroe omonimo portava la pace nel mondo portando via e distruggendo le armi di
tutte le nazioni. Questo era, grosso modo, il livello di analisi corrente
all'epoca.
In sostanza,
la guerra e i conflitti erano problemi che potevano essere risolti abolendoli,
proprio come all'epoca venivano approvate leggi per abolire la discriminazione
basata sulla razza e sul sesso. L'idea che le guerre potessero avere delle
cause, che i trattati di pace potessero non portare la pace o che le persone
potessero avere motivi validi per opporre una resistenza violenta era troppo
difficile da assimilare, tranne in un caso su cui tornerò più avanti.
In sostanza,
era così che veniva visto il Vietnam. Per ragioni comprensibili, il conflitto
veniva riportato sui giornali e nei telegiornali serali come una questione
quasi esclusivamente americana, indipendentemente dalle simpatie dei
giornalisti. I vietnamiti stessi apparivano raramente, se non come bersagli o
vittime a seconda delle simpatie politiche. Per molti chitarristi e il loro
pubblico, però, la questione era ancora più semplice: gli Stati Uniti stavano
attaccando e occupando il Vietnam e, una volta che le loro truppe se ne fossero
andate, i combattimenti sarebbero finiti e sarebbe scoppiata la pace. Il
cantante e cantautore Tom Paxton, allora molto popolare, il cui talento
musicale e lirico non era pari al suo acume politico, diceva al suo pubblico
che i Viet Cong erano in realtà solo il governo del Vietnam del Sud, che
combatteva sotto mentite spoglie contro gli invasori statunitensi. Quando la
guerra continuò dopo il 1972, il Paese fu unificato con la forza nel 1975 e
successivamente i "boat people" cominciarono a fuggire dal Paese, il
risultato fu una sorta di silenzio assordante. Non aveva senso. Né avevano
senso le rivelazioni sugli orrori perpetrati dai Khmer Rossi, che alcuni,
soprattutto in Francia, avevano sostenuto perché combattevano gli
"imperialisti americani", né tantomeno il violento rovesciamento di
quel regime da parte dei vietnamiti. Era difficile scrivere canzoni su tutto
questo.
Ad essere
onesti, le esagerate semplificazioni della comunità dei chitarristi non erano
più estreme, e in un certo senso erano l'immagine speculare, di tutta la
propaganda anticomunista dell'epoca. Per quella scuola di pensiero, ogni
sviluppo discutibile nel mondo, dai Beatles e i capelli lunghi, alle guerre in
Medio Oriente, fino alla guerra in Vietnam, era attribuito senza esitazione
alle macchinazioni dell'Unione Sovietica e ai suoi tentativi di costruire e
mantenere un impero globale. Sebbene questo discorso non fosse incontrastato,
era popolare tra quel tipo di persone che si aggrappavano a spiegazioni
monocausali perché la realtà era troppo complicata. Per avere un'idea della sua
popolarità, se non c'eravate all'epoca, immaginate gli articoli del vostro sito
Internet preferito oggi, ma con tutti i riferimenti all'"America"
sostituiti con "Unione Sovietica" e "CIA" con
"KGB". In molti casi, alla fine della Guerra Freda, le stesse persone
sono passate dal vedere la fonte di tutti i mali a Mosca al vederla a
Washington, perché la complessità era semplicemente al di là della loro
comprensione. Alcuni, come avrete notato, sono ora tornati indietro.
Le
spiegazioni monocausali contrapposte della sinistra e della destra erano
ovviamente superficiali, come del resto lo era tutto il pensiero dell'epoca sul
conflitto e sulla pace. Non c'era alcun interesse per spiegazioni complesse e
cause storiche, piuttosto era importante identificare i singoli individui
colpevoli che promuovevano la guerra e dovevano essere fermati. (Da qui,
diverse generazioni dopo, l'ossessione per "Putin" come fonte di
tutti i mali). Sia la sinistra che la destra, tuttavia, accettavano il dogma
liberale secondo cui tutto, alla fine, poteva essere risolto con la
negoziazione e che combattere era inutile perché, in ultima analisi, il
conflitto non riguardava realmente nulla e in molti casi era causato solo
dall'ingerenza dell'altra parte. In alcuni casi, la pressione dell'opinione
pubblica, comprese le manifestazioni, poteva essere necessaria per costringere
i governi a rendersene conto, ma l'avvio dei negoziati e la firma dei trattati
erano considerati obiettivi intrinsecamente desiderabili e risultati di per sé.
In quella che
allora era ragionevolmente definita «la sinistra», l'umore dominante può essere
descritto come un antimilitarismo superficiale e in gran parte frivolo. (Va
bene, la sinistra francese era diversa: lo era sempre stata.) Per essere più
precisi, si trattava di un'antipatia e di una sfiducia nei confronti delle
forze armate occidentali e delle loro attività, perché sembravano
rappresentare l'odiato "establishment" occidentale nella sua forma
più pura, spendevano molto denaro e alcune di esse erano state associate alle
guerre coloniali. La sinistra nella maggior parte dell'Europa era comunque del
tutto disinteressata alle questioni di difesa e indossava questa ignoranza come
un distintivo d'onore: non sapeva molto, ma sapeva cosa non le piaceva. Tuttavia,
questa avversione non si estendeva necessariamente ad altre forze
armate, purché combattessero contro l'Occidente. Il caso classico era
ovviamente il Vietnam, dove i Viet Cong e l'esercito regolare dell'NVA erano in
qualche modo confusi in un'unica forza combattente gloriosa e invincibile.
(L'incorreggibile Ewan McColl scrisse persino una canzone in loro lode, che non
linko perché è troppo orribile). In alcune parti della sinistra, almeno, c'era
anche simpatia per l'esercito israeliano, oltre che tolleranza, se non
ammirazione, per le qualità combattive dei combattenti
"anticolonialisti" di tutto il mondo. Così, il
film di Lindsay Anderson del 1969, If, ambientato in una scuola
pubblica inglese, deride ferocemente l'esercito britannico e viene considerato
un film pacifista, anche se il protagonista interpretato da Malcolm McDowell si
entusiasma davanti alla fotografia di un guerrigliero africano. E un decennio
dopo, gli intellettuali occidentali di sinistra si sono sciolti davanti ai
mujaheddin afghani che combattevano i russi. Tutto dipende da chi impugna il
fucile, immagino.
Sebbene
queste persone si definissero pacifiste, secondo la mia esperienza non lo erano
affatto: semplicemente detestavano e disprezzavano le forze armate del proprio
Paese e dei suoi alleati, e trasferivano il loro bisogno di ammirare il
coraggio e la virilità ad altre organizzazioni più meritevoli, come ho spiegato alcuni saggi
fa. La fine della Guerra Fredda li ha quindi sconvolti tanto quanto ha
sconvolto la destra, anche se per ragioni diverse. Dopo lo shock iniziale,
molti di questi movimenti si sono trovati ideologicamente alla deriva. La
Guerra Fredda era finita, ma non nel modo in cui si aspettavano, e, nonostante
fossero stati negoziati accordi di disarmo, c'erano ancora molte armi in
circolazione. E con rapidità nauseante, è emerso che lo scongelamento della
Guerra Fredda aveva semplicemente permesso ai conflitti del passato di
riemergere. Tutti i sostenitori delle spiegazioni monocausali della destra e
della sinistra sono rimasti sbalorditi nel vedere che i nuovi conflitti non
obbedivano alle ipotesi sui conflitti con cui erano cresciuti.
Almeno alcuni
sono stati salvati dai combattimenti nell'ex Jugoslavia, e in particolare in
Bosnia. Non era scontato che il destino di un paese quasi sconosciuto in
Occidente, se non come meta turistica, potesse suscitare passioni così estreme,
tanto più che nemmeno i più accaniti sostenitori dell'«intervento» avevano mai
visitato il paese, né si erano presi la briga di informarsi su di esso. (Chi
conosceva il paese era, secondo la mia esperienza, il più scettico sul valore
di qualsiasi tipo di intervento). Ma proprio come la guerra in Iraq per la
destra, così per una parte della sinistra la Bosnia era un utile ricettacolo
per l'energia morale in eccesso che si era accumulata dopo il 1989. La Bosnia è
diventata una causa perché bisognava trovare una causa. Non sorprende che molti
sostenitori della guerra in Iraq si siano opposti all'invio di truppe in
Bosnia, così come molti entusiasti dell'invasione della Bosnia si sono opposti
alla guerra in Iraq. Si trattava dello stesso esercito occidentale: tutto dipendeva
da chi era il nemico.
Poiché la
Bosnia era una causa, non era soggetta alle consuete regole della logica e
della realtà. Il "dovere" di intervenire, come veniva definito, era
indipendente da considerazioni pratiche. I suoi sostenitori erano gli stessi
gruppi che in precedenza avevano rifiutato con sdegno di imparare qualsiasi
cosa sulle questioni militari e nel 1992 non capivano perché ci si dovesse
aspettare che sapessero qualcosa su questioni noiose come la generazione di
forze, la logistica o la pianificazione militare operativa. Alla domanda
"cosa volete che facciamo allora?", la risposta era "fermate la
violenza!". Alla domanda "come fermiamo la violenza?", l'unica
risposta coerente, a parte "è compito vostro", era "con più violenza".
La forza morale avrebbe garantito la vittoria, dopotutto, anche se questa volta
con le armi invece che con le chitarre.
Sfortunatamente,
la crisi scoppiò proprio mentre le nazioni occidentali stavano iniziando ad
abbandonare le strutture della Guerra Fredda. I paesi europei avevano eserciti
di leva con un addestramento limitato e spesso erano legalmente impossibilitati
a schierare i coscritti al di fuori del proprio territorio. Gli Stati Uniti non
erano interessati a partecipare, mentre gli inglesi e i francesi, le uniche
nazioni con forze armate professionali di dimensioni considerevoli, non erano
propensi a schierare i propri soldati come bersagli. All'epoca era opinione
comune che anche solo per fermare temporaneamente i combattimenti sarebbe stato
necessario schierare 100.000 soldati in tutto il Paese (chiunque abbia mai
sorvolato il Paese in elicottero capirà perché), seguiti da altri 100.000
soldati sei mesi dopo, e così via fino al ritiro definitivo delle forze, quando
i combattimenti sarebbero senza dubbio ripresi. Risorse del genere non
esistevano nemmeno lontanamente in Europa (e non esistono nemmeno oggi), anche
se fosse stato possibile mettere insieme un piano militare coerente con un
obiettivo preciso.
Sebbene non
fosse mia responsabilità professionale, per fortuna, occuparmi direttamente di
questo tipo di questioni, ho fatto alcuni tentativi per educare le persone che
incontravo su alcune di queste realtà. Ho presto rinunciato, perché la risposta
era sempre di disprezzo e lezioni di moralità ("siete tutti codardi:
potreste farlo se voleste"). I governi occidentali avevano un dovere
morale e lo stavano venendo meno: alcune critiche femminili erano chiaramente
le nipoti delle donne che nel 1914 avevano consegnato piume bianche agli uomini
britannici riluttanti ad arruolarsi nella guerra. Un dovere morale schiacciante
di andare a uccidere delle persone non poteva, per definizione, tollerare alcun
dissenso o addirittura alcuna domanda, e i problemi pratici non potevano
diventare un ostacolo.
Anche a quei
tempi, quasi nessuno studiava filosofia in Gran Bretagna, ma non è difficile
vedere in questo tipo di atteggiamenti accesi un pallido eco del concetto
filosofico più distruttivo: l'imperativo categorico kantiano, ripreso da
qualche conferenza. Il bello dell'imperativo categorico è proprio la sua
universalità e automaticità: se posso imporlo a te, non hai altra scelta che
agire come suggerisco, e nessuna controargomentazione è accettabile. Come
descrive l' e
Alasdair MacIntyre (che, a onor del vero, non era un fan di Kant), per Kant
le regole della moralità sono razionali, come l'aritmetica, e non derivano
dalla religione o da altri sistemi di pensiero. Sono quindi vincolanti per
tutti, proprio come le regole dell'aritmetica. L'esperienza è per definizione
irrilevante se tali regole sono universalmente preventive. Quindi: "la
capacità contingente ... di attuarle deve essere irrilevante: ciò che è
importante è (la) volontà di attuarle. Il progetto di scoprire una
giustificazione razionale della moralità è quindi semplicemente il
progetto di scoprire un test razionale che discrimini quelle massime che sono
espressione autentica della legge morale da quelle che non lo sono ...".
Kant era
piuttosto sicuro di quali fossero queste regole morali (fortunatamente, erano
proprio quelle che i suoi genitori gli avevano inculcato) e pensava che le
persone comuni, dopo una breve riflessione razionale, sarebbero giunte alla
stessa conclusione. Il problema, ovviamente, è che chiunque può usare questo
tipo di ragionamento (siamo generosi) per arrivare a qualsiasi massima
desideri. Senza dubbio Kant sarebbe rimasto turbato nello scoprire una massima
come "uccidete tutti coloro che violano i diritti umani dei musulmani in
Bosnia", ma essa soddisfa il suo criterio di massima morale
universalizzabile.
Le
somiglianze tra la rozza moralità degli "interventisti", dalla Bosnia
al Ruanda, dal Kosovo al Darfur, dalla Libia alla Siria, e la logica speciosa
di Kant sono troppo evidenti per essere una coincidenza. Ciò non significa che
tutti gli interventisti abbiano letto e riflettuto su Kant (anche se alcuni
potrebbero averlo fatto), ma piuttosto che, al contrario, la dottrina di Kant
rappresenta una razionalizzazione sistematica e apparentemente intellettuale di
qualcosa che tutti noi sentiamo istintivamente e vorremmo fosse vero. Non
sarebbe bello, dopotutto, se potessimo identificare gli obblighi morali e
costringere gli altri a rispettarli? Ci permetterebbe di sentirci moralmente
superiori agli altri, moralmente intolleranti nei confronti dei loro fallimenti,
eppure ci assolverebbe dalla necessità di argomentare in modo logico o persino
di conoscere qualcosa sull'argomento. E se tutto va storto, non è colpa nostra.
Così, i
sedicenti pacifisti degli anni '70 e '80 hanno messo via le chitarre e si sono
convertiti nei militaristi fanatici degli anni '90 grazie a un semplice
adattamento delle leggi morali universali. In fin dei conti, non c'è alcuna
differenza tra "la violenza è sbagliata quando non la approvo" e
"la violenza è giusta quando la approvo". Lo sviluppo
dell'interventismo umanitario (o, come preferisco chiamarlo, fascismo
umanitario) fino ai giorni nostri può quindi essere visto come il logico
sviluppo di una mentalità assolutista di lunga data dell' o, che sa di avere
ragione e di conseguenza cerca di imporre doveri agli altri, nei confronti dei
quali si sente moralmente superiore. (Per decenni il governo britannico ha
ricevuto lezioni di morale da gruppi antinucleari che non sapevano molto delle
armi nucleari, ma sapevano cosa non gli piaceva). Ironia della sorte,
l'Occidente è ora vittima di una mentalità assolutista molto simile, ma ne
parleremo più avanti.
È questo,
credo, che aiuta a spiegare l'incoerenza e la mancanza anche di una
comprensione di base così evidenti nel "dibattito" sull'Ucraina. Ciò
vale per i "giusti e i torti" del conflitto, poiché il sostegno
all'una o all'altra parte è un dovere morale, non una questione di
interpretazione dei fatti e della storia. È abbastanza facile elaborare
imperativi categorici contrapposti e universalizzabili: "sostenere tutti i
paesi amici dell'Occidente quando sono in conflitto con altri" contro
"sostenere tutti i paesi che l'Occidente non gradisce quando sono in
conflitto con altri". (Ironia della sorte, coloro che giustamente
condannano il motto "il mio paese ha sempre ragione", sono spesso
pronti a sostenere il paese di qualcun altro, che abbia ragione o torto). Non
c'è bisogno di sapere nulla di nulla, perché si evoca un principio morale
universale (anche se in pratica alcuni di noi si sentono a disagio se non fanno
almeno un tentativo di informarsi un po' sulla situazione).
Lo stesso
vale per le infinite pagine di commenti sulla situazione militare, sulle
tecnologie belliche, sui piani e sulle operazioni militari e sulla strategia
diplomatica e politica che infestano Internet. Di tanto in tanto si trovano
persone che sanno di cosa parlano, ma la triste realtà è che la maggior parte
delle persone non vuole leggere articoli o guardare video di persone che sanno
di cosa parlano, per paura di sentire cose moralmente sbagliate. Su Internet e
nelle sezioni dei commenti di numerosi siti è possibile trovare dichiarazioni
sicure sulla strategia russa o sulle armi occidentali da parte di persone che
hanno visto un film di guerra. Ciò diventa comprensibile quando ci si rende
conto che i giudizi che esprimono non sono tecnici, né tantomeno politici, ma
si basano esclusivamente su imperativi morali. "Dobbiamo credere a tutto
ciò che dice Mosca" contro "non dobbiamo credere a nulla di ciò che
dice Mosca", per esempio.
Dalla fine
della Guerra Fredda, con i suoi infiniti compromessi morali e la necessità di
placare in qualche modo l'Unione Sovietica, l'Occidente è stato libero di
praticare questo modo di pensare quanto voleva, e i suoi leader e i loro
servitori sono riusciti a convincersi delle cose più straordinarie. Nonostante
la cultura popolare ami cercare cattivi con baffi arricciati, secondo la mia
esperienza la maggior parte delle persone che lavorano nel governo ama sentirsi
a proprio agio con se stessa e ritiene di lavorare per quella che, almeno ai
propri occhi, è una causa degna. Così, nel 1991, ho visto molti funzionari
governativi occidentali intelligenti indossare distintivi con la scritta FREE
KUWAIT (mi sono reso impopolare chiedendo se potevo averne alcuni). La guerra
stessa è stata un'orgia di lusso morale, in cui i leader politici e i loro
consiglieri potevano crogiolarsi nel senso di agire virtuosamente, perseguendo
l'assioma morale secondo cui "i confini riconosciuti a livello
internazionale devono essere inviolabili". Nonostante tutte le
argomentazioni persistenti, noiose e intelligenti sulle motivazioni finanziarie
e di risorse che influenzano le azioni dei governi in situazioni di crisi, il
fatto è che, almeno nella mia esperienza, i decisori politici amano
considerarsi attori morali: il mondo sarebbe un posto molto più sicuro se non
lo facessero. (Se la vostra esperienza personale è diversa, fatemelo sapere nei
commenti).
Per molti
versi tutto ciò non è sorprendente. La convinzione di Kant che gli imperativi
morali possano essere dedotti razionalmente dal nulla si adatta perfettamente
al modo di ragionare liberale che ho spesso criticato. Il liberalismo non ha
origini, né fondamenti se non il razionalismo astratto e i suoi precetti, tali
e quali, devono essere accettati a priori. Per definizione, il
liberalismo non può persuadere, può solo affermare e intimidire. È quindi
naturale che il liberalismo incontrollato che abbiamo conosciuto nell'ultima
generazione circa adotti argomenti kantiani di ricatto morale, anche se i suoi
praticanti avessero solo una vaga idea di chi fosse Kant. L'unico argomento del
liberalismo è "Perché lo dico io", e questo include il tentativo di
caricare i doveri morali sulle spalle degli altri.
L'esperienza
di vita, come sottolineava Kant, non conta nulla, e la praticabilità è
irrilevante. Quando si leggono storie sul "fallimento" delle
politiche occidentali nei Balcani o in Ruanda negli anni '90, è quindi
importante capire che non si tratta di un fallimento nel senso comune del
termine. Non significa che si sia provato e non abbia funzionato o che alla
fine si sia rivelato impossibile, significa che l'Occidente ha fallito nel suo
dovere morale, così come definito da coloro che si sono autoeletti arbitri dei
doveri morali altrui. Allo stesso modo, oggi l'Occidente sta orgogliosamente
"adempiendo" al suo dovere morale nei confronti dell'Ucraina, il che
spiega in gran parte l'atteggiamento compiaciuto dei suoi leader e dei loro
sostenitori nei media. Sta facendo la cosa giusta, indipendentemente dalla
distruzione causata. In ogni caso, come diceva Kant, si è obbligati a fare le
cose anche se non si è in grado di adempiere all'obbligo. Così tutti sono
contenti.
Beh, non del
tutto. Tutto segue dei cicli, e i fattori politici tradizionali quali il
vantaggio nazionale, il beneficio economico e il semplice buon senso stanno
ricominciando a farsi strada nel dibattito, dal quale non avrebbero mai dovuto
essere esclusi. Dopo tutto, può esserci un imperativo categorico più importante
per i leader politici che "tutelare gli interessi della propria nazione e
del proprio popolo"? Cos'altro si potrebbe suggerire? Eppure i leader
occidentali non esitano a dare lezioni al proprio popolo sul fatto che i suoi
interessi devono essere subordinati alle avventure di politica estera e alla
cura e al mantenimento degli immigrati vittime della tratta. Ma sembra proprio
che tra le vittime meno rimpianti dell'Ucraina ci sarà la popolarità
dell'intervento umanitario, soprattutto perché nessuno è stato in grado di
spiegare perché un simile obbligo morale di intervenire non valga a Gaza. (Le
ragioni sono complesse, contraddittorie e controintuitive, e tornerò
sull'argomento tra una o due settimane). Nel frattempo, ci sono segni che la
morsa delle ipotesi della teoria liberale delle relazioni internazionali sta
perdendo la sua presa e sta iniziando a allentarsi.
E non prima
del tempo. Dopo tutto, uno dei presupposti fondamentali dell'ultima generazione
era che l'Occidente potesse e dovesse intervenire ovunque, e che ciò non
avrebbe comportato alcun costo: i costi, se mai ce ne fossero stati, sarebbero
stati sostenuti da altri. Come ho osservato la settimana scorsa, dopo l'Ucraina
questo non è più vero. Ma una delle conseguenze è che il mondo sta venendo
verso di noi, in modi che non possiamo controllare. Abbiamo già visto come
l'ordine internazionale liberale abbia facilitato la criminalità organizzata
transnazionale e abbia persino trasformato alcuni paesi europei (ad esempio il
Belgio e i Paesi Bassi) in narco-Stati in erba, con l'affermarsi di gruppi
criminali organizzati stranieri.
Ma a volte la
minaccia è più diretta e letale, come nel caso dei gruppi islamici militanti.
Ricordiamo ora che sia Kant che il liberalismo moderno hanno cercato di
sostituire l'etica tradizionale basata sulla religione con nuove forme di etica
basate sulla logica e sulla ragione. Purtroppo, nel tentativo di realizzare il
primo obiettivo, hanno fallito nel secondo. Ma altre culture non hanno seguito
il nostro esempio. L'Islam politico non è nuovo di per sé: risale a un secolo
fa, alla Fratellanza Musulmana egiziana, nata come reazione alle tendenze
modernizzatrici e liberalizzatrici introdotte dalle potenze coloniali
britannica e francese. Ma è rimasto un movimento politico fino agli anni '80,
quando sono state create le prime reti per l'invio di combattenti jihadisti in
Afghanistan, con il finanziamento dei paesi del Golfo. La stessa cosa è
successa in Bosnia poco dopo, con la formazione della 7ª Brigata Musulmana
dell'Esercito di Sarajevo, sempre con finanziamenti del Golfo. Ma in entrambi i
casi, i militanti coinvolti potevano affermare di difendere i loro fratelli
musulmani dalla persecuzione. L'idea che la lotta dovesse essere portata contro
i miscredenti e che questo fosse un obbligo morale era nuova e molto
controversa. (Ma naturalmente gli imperativi categorici originali erano quelli
emanati da Dio, quindi...)
La fantasia
neoconservatrice/neoliberista di creare un solido arco di Stati democratici,
liberali e orientati all'Occidente in Medio Oriente è fallita in modo più
completo e disastroso di qualsiasi altro progetto simile nella storia: persino
il Terzo Reich era stato pianificato meglio. Ma la conseguenza della
distruzione dell'Iraq e del successivo precipitare con gioia nella guerra
civile in Siria è stata quella di far rivivere una tendenza che era quasi morta
nel 2003, ma in una veste nuova, più populista e molto più violenta rispetto
alla vecchia Al-Qaeda. Non entreremo nuovamente nei dettagli storici, ma basti
dire che lo Stato Islamico opera secondo principi kantiani impeccabili. È vero,
trae la sua ispirazione teorica dal Corano e dagli Hadith, ma in realtà
la maggior parte dei jihadisti ha una comprensione molto limitata dell'Islam, e
le sentenze degli imam moderni che giustificano le loro stragi sono spesso il
risultato di una ricerca dell'imam più conveniente, fino a trovare l'opinione
che vogliono.
Proprio come
con Kant, chiunque può giocare con gli imperativi categorici, e basta chiedere
per ottenere un hadith che non solo permette, ma richiede l'uccisione di
tutti gli sciiti. Come nel concetto liberale di legge (e l'Islam è altamente
legalistico), se si cerca bene, si può trovare una giustificazione per
qualsiasi cosa. Così gli Stati occidentali si trovano a dover affrontare, non
solo all'estero ma ora anche in patria, combattenti che vogliono morire, che
preferiscono farsi saltare in aria piuttosto che arrendersi e per i quali le
giovani coppie non sposate che amano la musica rock o le partite di calcio sono
peccatori meritevoli di esecuzione immediata. Come per Kant, tutte le
considerazioni esterne di contingenza, praticabilità o persino etica sono
escluse. Ecco a voi un imperativo categorico.
Tipicamente,
il liberalismo si trova completamente perso in questo contesto e, come al
solito, affronta qualcosa che non capisce ignorandolo e sperando che scompaia.
La principale preoccupazione del liberalismo in questo momento è garantire che
le comunità musulmane in Occidente non vengano "stigmatizzate" per
associazione con gruppi che vogliono effettivamente sterminarle perché
commettono il peccato di vivere in uno Stato non musulmano. No, nemmeno io lo
capisco. E cominciamo a capire che non tutti gli imperativi categorici sono
uguali. Forse ci sentiamo moralmente obbligati ad assumere persone che
combattano per entrare in altri paesi e uccidano i loro abitanti fino a quando
non fanno ciò che vogliamo, ma non c'è nulla nelle clausole scritte in piccolo che
dice che loro non possono reagire e che noi dobbiamo essere pronti a combattere
per ciò in cui crediamo, ammesso che sappiamo cosa sia. Nessuno morirà per
Ursula von den Leyen, per l'Eurovision Song Contest o per il diritto di usare
questo o quel bagno. Ma molte persone sono disposte a morire per fare ciò che
considerano la volontà di Allah, e al momento non abbiamo idea di come
fermarle.
La politica estera occidentale è ormai ideologicamente esausta e fallimentare, e nessuna politica estera è possibile senza un'ideologia di fondo, per quanto rozza o materialistica essa sia. Dopo aver definitivamente abbandonato l'etica basata sulla religione, il liberalismo moderno ha attraversato una serie di cambiamenti, passando dall'anticomunismo all'eccezionalismo occidentale, al liberalismo morbido, alla distensione, al liberalismo aggressivo e al fascismo umanitario, fino al punto che ora non sa più cosa sta facendo, né perché, e i suoi rappresentanti politici si riducono a borbottare banalità senza senso. Give War a Chance si rivela un programma non più ponderato di Give Peace a Chance. È un bene che il contesto internazionale sia così stabile, altrimenti potremmo trovarci in guai seri.
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